Nell’audizione in regione sulla micromobilità elettrica l’assessore alla Mobilità del comune di Milano, Marco Granelli, ha fatto il punto sull’utilizzo dei monopattini in città e sulla sicurezza delle strade. “Servono regole, strade e percorsi sicuri e attenzione da parte di tutti. I monopattini elettrici sono uno strumento utile alla mobilità urbana perché, come le biciclette, evitano la congestione del traffico”, ha spiegato Granelli. La condivisibile affermazione, seguita dall’impegno del comune per la mobilità sostenibile, non consente però all’assessore di usare i numeri assoluti sugli incidenti dei mezzi circolanti per sorvolare sulla effettiva pericolosità dei monopattini. I dati del 2019 (quelli del 2020, causa Covid, non hanno valore statistico) sono impietosi con i monopattini. Il milione e 600 mila auto circolanti a Milano (dati del comune ricavati dalle telecamere area B + auto milanesi) hanno subito 6.040 incidenti, con un rischio di incidente dello 0,4% e con feriti nel 70% dei casi. Le 250.000 moto (165.000 milanesi e 90.000 stimati da fuori) hanno avuto 1.956 incidenti con un rischio dello 0,8% (doppio dell'auto) e feriti nell'87% dei casi. Le 75.000 biciclette (stimate) hanno prodotto 961 incidenti con un rischio dell’1,2% (il triplo delle auto) e feriti nel 92% dei casi. I 15.000 monopattini (anch’essi frutto di una stima) hanno avuto 273 incidenti con un rischio del 2% (5 volte le auto e quasi il doppio delle bici) e feriti nel 92% dei casi. Occorre dunque prendere atto che i monopattini sono in assoluto il mezzo più pericoloso in circolazione, con le aggravanti che non hanno targa, girano sui marciapiedi e non c'è obbligo di casco (che sarebbe il minimo) pur viaggiando al doppio della velocità delle biciclette e con un equilibrio molto più precario.
lunedì 29 marzo 2021
domenica 28 marzo 2021
L'ULTIMO TRENO. IL LIBRO DI MARCO PONTI E FRANCESCO RAMELLA
[Questo post è stato pubblicato in origine sul sito di Arcipelago Milano]
La storia raccontata è resa esplicita da dati che esprimono il declino di FS, da quando l’azienda è stata spostata fuori dalle garanzie e dalla “gabbia contrattuale” del Pubblico Impiego per inserirsi in un altro alveo giuridico, che non ne ha frenato i costi e i sussidi ricevuti dallo Stato. Sono state alzate le retribuzioni dei dipendenti, ma si è ridotta le responsabilità della spesa, sia sul versante degli investimenti che delle forniture.
Come non ricordare i treni veloci in Sardegna o le “lenzuola d’oro” dei tempi di Ludovico Ligato? Il dimezzamento della mano d’opera da 200mila a 100mila ferrovieri, come è opportunamente ricordato nel libro, non è servita a rendere più efficiente l’azienda.
Ad ogni “generoso” esodo incentivato (diciamoci la verità: anche iniquo rispetto al trattamento riservato ad altre categorie) si perdevano professionalità che non venivano sostituite da incrementi tecnologici e formativi ma anzi aumentavano le esternalizzazioni, aprendo una nuova strada alle commistioni politiche e ad imprese prive di esperienza ferroviaria (in particolare sulla manutenzione della rete), che non aumentavano la produttività e la qualità dei servizi offerti da FS.
Chi vince un appalto con le ferrovie è come se vincesse alla lotteria sapendo prima quali sono i biglietti vincenti. Ad ogni esodo, poi, la piramide dirigenziale aumentava enormemente: meno operai e manovali, più promozioni di quadri e dirigenti sindacalizzati. Questa storia nel libro è raccontata senza filtri e condizionamenti (rispecchiando la personalità dei due autori), ma rischia di essere respinta da un lettore superficiale e “tifoso” delle ferrovie.
Le FS sono il fanalino di coda delle ferrovie europee. I passeggeri non sono “felici” perché le tariffe sono bassissime, sono, al contrario, molto infelici. In più di un’indagine si sono detti pronti a pagare di più per un servizio migliore.
La conclusione degli autori sembra essere un “basta” alla tanto osannata “cura del ferro” che non ha portato lo sviluppo auspicato e neppure raggiunto robusti obiettivi ambientali. Secondo me, invece, è il “ferro” che va curato. FS, se vuole avere un futuro nella transizione ecologica, va rivoltata come un calzino, vanno introdotti elementi di concorrenza e spazzata via l’incrostazione consociativa. E tutto questo andrebbe fatto prima di avviare l’enorme piano d’investimenti ferroviari previsto dal Recovery plan, altrimenti saranno guai.
domenica 21 marzo 2021
OPERE PUBBLICHE, LA SOLUZIONE NON SONO I COMMISSARI MA LA SEMPLIFICAZIONE DI LEGGI E PROCEDURE
A quando un commissario dei commissari? È la domanda che sorge spontanea dopo il fallimento della stragrande maggioranza delle opere pubbliche che fin qui si sono servite di una struttura commissariale. Per la Tav della Valsusa, per il terzo valico ferroviario Genova-Milano, per il Mose di Venezia, per la pedemontana veneta, per il terremoto del Centro Italia e persino per il ponte sullo stretto di Messina c’è stato un commissario straordinario. E sono tantissimi altri i commissari piazzati in tutto lo stivale, gli ultimi dalla ministra De Micheli poco prima di lasciare la carica. Ciononostante, la gran parte delle opere commissariate resta in gravissimo ritardo, e i loro costi sono lievitati.
La stessa sorte, prevedibilmente, toccherà all’ennesimo provvedimento “sblocca cantieri” promesso dal ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile. Molte delle opere commissariate non sono neppure iniziate, alcune non hanno neppure un progetto, e per altre i cantieri sono fermi per serissime indagini della magistratura. L'unica che è stata completata velocemente è il ponte Morandi a Genova, ma solo perché in questo caso sono state messe da parte per decreto leggi e regole, e si è potuto affidare i lavori senza gara al trio nazional-popolare Fincantieri-Salini-FS a cui non si poteva dire di no. Anche se c’era un altro consorzio d’imprese, guidato dalla China communications construction company (Cccc) con la Salc di Milano, la cui offerta prevedeva tempi e costi minori. Inoltre, secondo questo progetto alternativo, il ponte sarebbe stato rifatto con tre corsie per senso di marcia e non due: con tre corsie, l’allargamento delle gallerie d’ingresso e d’uscita avrebbe ampliato la capacità del viadotto ed evitato la costruzione della Gronda di Genova, che prevede una spesa fino a 4 miliardi euro e un enorme impatto ambientale. Se il caso Genova deve fare scuola, l'unico insegnamento è che non servono commissari, basta abrogare la legge.
Ora il neo ministro Enrico Giovannini sta preparando un decreto, per aggiungere altre opere da approvare entro giugno. Sull’inserimento nella lista di nuove opere, nelle commissioni parlamentari è ripartita la solita bagarre dai chiari connotati campanilisti e fuori da ogni strategia trasportistica e di valutazione dei costi e dei benefici. Nessuno sembra accorgersi che i moltiplicatori occupazionali di queste opere sono modesti e le tecnologie utilizzate scarse, insomma che il settore delle opere pubbliche è maturo e sarebbe (data la dimensione degli investimenti) in contrasto con gli obiettivi del Recovery plan.
È già partita, invece, la contesa per la nomina di commissari amici di questa o quella parte politica. Le risorse per le opere pubbliche dovrebbero al contrario servire per riformare la governance degli appalti, a partire dallo stato di arretratezza delle stazioni appaltanti (pubbliche) e dalle richieste dei committenti (pubblici anch'essi). Le prime che indicono gare (poche) solo se costrette, prive come sono di professionalità e di esperti in project management. I secondi che non hanno vincoli economici, tanto poi ci pensa il bilancio dello Stato: per la Tav italiana, ad esempio il costo per km è triplo di quelle del resto d’Europa, e non sono neppure chiari gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
La frammentazione delle competenze, il quadro normativo complesso e le valutazioni d’impatto ambientale non frenerebbero le opere se la progettazione fosse di qualità, se fossero coinvolti i cittadini interessati e se i controllori non fossero anche i controllati. Oltre a una semplificazione delle norme servirebbe l’adozione e l’applicazione della normativa europea sugli appalti. Partire con gli investimenti senza aver modificato la legge, pensando piuttosto di escluderla, sarebbe un errore madornale: consentirebbe infatti, ancora una volta, di partire con i lavori di un opera per lotti costruttivi e non funzionali. Il che significherebbe disperdere le risorse e non avere di default tempi certi, visto che il lotto costruttivo permette di cominciare un’opera anche se non ci sono le condizioni per completarla (autorizzazioni, espropri, risorse), e quindi l’opera resta inservibile anche parzialmente; il lotto funzionale, invece, obbliga ad avere in mano almeno la certezza di completarne una parte, rendendola parzialmente servibile.
martedì 16 marzo 2021
AUTOSTRADE: FARE COME IN SPAGNA, BASTA GARE PER INFRASTRUTTURE GIÀ AMMORTIZZATE
venerdì 12 marzo 2021
RICOLLOCARE I PILOTI DAGLI AEREI AI TRENI: ALL'ESTERO SI PUÒ, PERCHÉ NON PROVARCI ANCHE IN ITALIA?
Mentre le più quotate ed efficienti Lufthansa e Swissair stanno cercando di ricollocare una parte dei loro piloti in esubero nelle ferrovie dei rispettivi paesi, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha nominato per Alitalia due nuovi commissari, da aggiungere all’attuale Giuseppe Leogrande. Ha aggiunto così due posti a tavola, visto che tra i nove membri del cda di ITA (la società incaricata di gestire la nuova Alitalia) la Lega non è rappresentata. Anziché difendere le alte professionalità di molti piloti perennemente inattivi che si disperderebbero dall’inevitabile piano di esuberi derivanti dal ridimensionamento di ITA, prendendo esempio dall’estero e pensando a una loro ricollocazione nelle ferrovie italiane che si dice di voler rilanciare assieme alla sostenibilità dei trasporti, il Governo sta pensando ad un piano fatto di sola Cig ed esuberi. Piano che si aggiungerebbe a quelli del passato decennio, caratterizzato da cassa integrazione e prepensionamenti d’oro. In situazioni analoghe a quella italiana - pochi macchinisti da una parte, e troppi piloti d'aereo dall’altra - i sindacati e i piloti svizzeri e tedeschi non si stanno opponendo alla prospettiva di un trasferimento, ma anzi stanno stringendo accordi. Con il Covid, la crisi del trasporto aereo ha messo in ginocchio vettori ben più robusti di Alitalia, i quali però non aspettano di uscirne solo con aiuti di Stato e ammortizzatori sociali. Perché non provarci anche in Italia? Anche perché ci sono lavoratori più deboli da tutelare, in altri settori che la politica ha spesso dimenticato.