mercoledì 4 dicembre 2019

AUTOTRASPORTO, ONLIT: DE MICHELI BEN POCO GREEN, BOCCIA LE RESTRIZIONI AUSTRIACHE AL BRENNERO E PROROGA LO SCONTO SULLE ACCISE


Le prime settimane della ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, sono tutt’altro che green. Anzi, il suo operato ricorda piuttosto a quello di una portavoce degli autotrasportatori. Qualche giorno fa, a Bruxelles, incontrando la commissaria ai Trasporti Adina-Ioana Vălean, De Micheli ha chiesto, in nome della concorrenza, di scongiurare l’iniziativa austriaca di limitare il transito del traffico pesante sul proprio territorio a decorrere dal 1° gennaio 2020. Un provvedimento che ha come obiettivo la riduzione del l’inquinamento atmosferico sulle strade di un paese membro della UE, e che dovrebbe essere anche quello del Governo italiano, visto che il confine corre sul medesimo aro alpino. Anzi, in base al principio di reciprocità, tale corridoio green andrebbe esteso in territorio italiano almeno fino a Verona. In una fase di emergenza climatica come l’attuale, Il diritto alla libera circolazione delle merci e la tutela delle imprese di autotrasporto dovrebbe venire dopo la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini. 
Ma non è finita qui: la ministra De Micheli ha infatti proposto un emendamento alla legge di bilancio che rinvia da marzo a ottobre del prossimo anno l'entrata in vigore del provvedimento di eliminazione dello sconto sulle accise del gasolio per gli autotrasportatori. Non bastano le proroghe del Ferrobonus e del Marebonus per dar vita ad una efficace politica di riequilibrio del trasporto merci dal Tir alla ferrovia. 
Con alle sue prime iniziative, dunque, De Micheli prosegue sulla scia dei precedenti titolari del suo dicastero, nell’illusione che bastino sostanziosi investimenti pubblici per sottrarre le ferrovie italiane dalla loro posizione di fanalino di coda a livello europeo per quanto riguarda i trasporto merci. Una situazione che si deve agli alti costi di gestione e alla bassa produttività del gruppo FS, i cui elevati tempi di consegna rendono antieconomico per le imprese il trasporto delle merci via ferro. 

lunedì 28 ottobre 2019

MILANO E I TRASPORTI PUBBLICI: POCA ACCESSIBILITÀ PER PERSONE E MERCI, MALE ANCHE LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE


Milano è al centro della "T” ferroviaria dell’alta velocità: la città è uno dei nodi principali della tratta Est-Ovest (Torino-Milano-Venezia) e la partenza della dorsale Nord-Sud (Milano-Roma-Napoli), e fra qualche mese, a quanto sembra, dalla stazione Centrale i treni pendolari verranno sfrattati per fare spazio a nuove Frecce. In campo autostradale, sono state completate da tempo la TEEM (Melegnano-Agrate) e la Brebemi (Milano-Brescia), mentre la Pedemontana è finita su un binario morto: tuttavia, la congestione sulle tangenziali e sugli assi viari principali è rimasta la stessa. 
Sulla linea del Passante di Milano circolano 10 treni ogni ora, sommando quelli in entrata e in uscita: a Monaco sono 24, a Parigi 32. I pendolari che possono raggiungere in treno Milano sono solo 750 mila, la metà di quelli che raggiungono Monaco di Baviera o Zurigo, città con cui il capoluogo lombardo può fare un confronto perché hanno dimensioni analoghe, a differenza di Londra o Parigi. 
C’è un problema grande come una casa di gestione delle infrastrutture e delle aziende di servizi di trasporto, che si ignora preferendo parlare di nuove opere - quando anche quelle che ci sono, vedi la Brebemi o lo scalo di Malpensa, sono sottoutilizzate. E cosi a Milano e nei comuni vicini piovono automobili, Tir e  camioncini che congestionano le strade e contribuiscono a immettere in atmosfera enormi quantità di CO2.
Inoltre, prima la crescita esponenziale dei centri commerciali e dei supermercati in tutto l'hinterland ha contribuito al consumo di suolo, e negli ultimi anni lo sviluppo impetuoso dell’e-commerce ha provocato una crescita di magazzini logistici e di grandi e piccoli centri di trattamento e distribuzione della merce privati:  accanto ai pochi e vecchi interporti (come quello di Busto Arsizio) e alle stazioni merci, sono spuntate come funghi delle piattaforme private sparse su tutto il territorio metropolitano. 
In una ricerca della Luiss in collaborazione con World capital  emerge che intorno a Milano sono presenti 850 magazzini, che costituiscono il 35 per cento della dotazione totale nazionale. La rete logistica milanese è passata da 12 milioni di metri quadrati di superficie coperta del 2011 a 14,7 milioni del 2016 ( oltre il 20 per cento in più), con una dimensione media per magazzini di 20 mila mq. 
Il mercato degli affitti e immobiliare ha avuto una forte impennata assieme al consumo di suolo. Se si aggiungono altri settori come l’edilizia residenziale, l’industria, le infrastrutture di trasporto e la distribuzione commerciale, la somma colloca la Lombardia al primo posto in Italia per consumo di suolo, e l’area milanese è l’epicentro del fenomeno. 
Per garantire uno sviluppo sostenibile di Milano bisogna invertire la marcia, partendo dalla mobilità e dal trasporto merci. Portarli agli standard europei significa raddoppiare l’utilizzo dei mezzi pubblici per i pendolari e di quello su ferrovia per le merci, e avere una logistica urbana che sfrutta le aree ancora a disposizione della città. Questi risultati vanno raggiunti con costi pubblici parametrati a quelli degli altri paesi europei, e recuperando il gap di produttività del 20 per cento che separa Atm e Trenord dalle migliori performances raggiunte dalle aziende che gestiscono i trasporti all’estero. 
La mobilità pubblica non è un mito di sinistra, ma un’efficiente organizzazione delle aziende di trasporto  chiamate a soddisfare una domanda che nelle periferie e nell’hinterland - dove solo il 10 per cento dei cittadini utilizza i mezzi pubblici (treni e bus) - continua a non ottenere risposte, con servizi molto distanti da quella capillarità di rete e frequenza di mezzi che invogliano a lasciare a casa l’automobile. L’Agenzia della Mobilità Metropolitana ha fatto da spettatrice nel recente pasticcio dovuto al pesante aumento delle tariffe delle trasporto, che è servito a giustificare una iniqua integrazione tariffaria. Riguardo alle merci, un'innovativa programmazione dei servizi logistici è l’unico modo per governare un processo di distribuzione dei prodotti che sta cambiando e ha bisogno di risposte nuove. Risposte che solo un governo veramente metropolitano può dare.

martedì 10 settembre 2019

Sistema autostradale, qualche domanda alla neoministra De Micheli


Per evitare di restare prigionieri ed ossessionati della irrealistica quanto improbabile revoca della concessione di Autostrade per l’Italia (Aspi - gruppo Benetton), il nuovo Governo dovrebbe delineare un piano che si appoggi su strumenti davvero realistici per riformare gli accordi con i 24 concessionari che gestiscono i 6 mila km della rete autostradale nazionale. 

Per farlo, il primo obiettivo dev’essere quello di riequilibrare a favore dello Stato la regolazione pubblica delle concessioni, convenzioni e contratti stipulati con le società concessionarie, oggi basata sulla promessa che una quota dei loro profitti (il 25 per cento, se va bene) debba essere essere reimpiegato in investimenti infrastrutturali. Investimenti spesso definiti dagli stessi concessionari per garantirsi il rinnovo dell'appalto e buoni rapporti con l’amministrazione pubblica del territorio su cui insiste l’autostrada che gestiscono.

Non è sufficiente l’impegno previsto dal programma del Conte bis a “realizzare nuove infrastrutture tenendo conto degli impatti ambientali e sociali delle opere”: manca il tassello del ruolo della regolazione pubblica. I super profitti delle concessionarie devono o no essere riequilibrati per destinare maggiori risorse alle casse dello Stato? Gli obblighi di manutenzione della rete vanno fatti rispettare o no, e come? Basta la presenza del ministero dell’Economia e di quello delle Infrastrutture e Trasporti nei consigli di amministrazione delle concessionarie? Sembra proprio di no. Vanno scritte nuove e più vincolanti norme che sanzionino le società inadempienti? Sembra proprio di si.
 
E poi: come si approccerà nel futuro la regolazione pubblica con le concessioni già scadute e con quelle in scadenza? Cambierà il registro che ha visto in questi anni lo Stato soccombere ai capricci di potere dei concessionari in cambio di un piatto di lenticchie? Negli ultimi anni è emerso in tutta la sua evidenza un vistoso limite del MIT nelle sue funzioni di vigilanza e controllo amministrativo verso i concessionari: si vuole recuperare il terreno - e i soldi - persi riorganizzando le strutture ministeriali oppure no? 

Infine: è sufficiente la riforma tariffaria che armonizza i sistemi di pedaggio in base ad un price-cup universale, o non sarebbe anche il caso di dare un'aggiustatina alla base di riferimento del nuovo meccanismo di calcolo indicato dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti? 

Per avere un’idea delle storture che caratterizzano la gestione del sistema autostradale, basta considerare l’esempio della pedemontana lombarda: quella esaltata da molti politici locali e nazionali come una delle infrastrutture indispensabili allo sviluppo non solo della Lombardia, ma dell’intero Paese, e che però è un simbolo delle inadempienze dei concessionari. 

Da 5 anni la sua realizzazione è bloccata dopo una spesa 1,2 miliardi di euro pubblici, e dopo aver mancato le promesse di apertura prime per Expo 2015, poi entro il 2018. 

Il totale del percorso - 67 km - avrebbe dovuto costituire un collegamento completo tra Varese e Bergamo: dopo 30 anni dai primi lavori, l'autostrada non tocca nessuna delle due città, visto che sono stati costruiti soltanto tre monconi, pari a 22 km complessivi.

Il contratto con lo Stato firmato nel 2007 dall’allora ministro Di Pietro obbligava poi la società concessionaria  a versare entro il 2010 oltre 500 milioni di capitale sociale. A quasi dieci anni di distanza ne sono stati versati meno della metà - o meglio: un quarto, visto che nel frattempo il capitale da versare è salito ad oltre 800 milioni.

Per realizzare il poco costruito finora è stato necessario un succulento contributo pubblico, che ad oggi ha coperto l’80 dei costi, imponendo che in cambio fosse garantita la realizzazione totale. L’opera però resta ferma e i cittadini la pagano due volte: con pedaggi carissimi, quelli che la usano, con le tasse tutti gli altri. Perché non partire da qui, se si vuole riportare le autostrade sotto la diretta gestione dello Stato?   

Ma la neo ministra dei Trasporti Paola De Micheli dovrebbe anche chiedersi come mai la Corte dei Conti ha ritenuto illegittimo la proroga della concessione della Valdastico (A31), che ha permesso ad Aspi di incamerare quasi 600 milioni che dovevano finire nelle casse dello Stato. Oppure guardare alla vicenda dell’Autobrennero, che ha rinnovato la sua concessione grazie all’adozione del meccanismo in house: senza nessuna gara e liquidati i pochi soci privati, al comando dell’A22 sono rimasti gli Enti locali, grazie a tante promesse di opere sul territorio che va da Bolzano a Modena. La stessa via la sta seguendo, a Nore-Est, Autovie Venete. Altro tema tutt’altro trascurabile è poi la Gronda di Genova. Non si discute se farla o no, ma di chi la fa, chi la paga e quale progetto si adotta.

Applicando l’accordo del 2017 siglaypo da Aspi e dall’ex ministro Delrio, il gruppo dei Benetton farebbe un altro bingo. Assumendosi i costi della realizzazione dell’opera, avrebbe una proroga di 4 anni della concessione, e introiti tariffari da qui al 2042 sette volte superiori a quanto speso. 

Prima di dare assicurazioni sul veloce avvio dei lavori dei progetti in campo, insomma, la ministra De Micheli dovrebbe ridisegnare le politiche del suo dicastero su questa materia. Assieme agli aeroporti, le autostrade sono galline dalle uova d’oro, e dovrebbero deporne qualcuno anche nelle casse dello Stato.

sabato 29 giugno 2019

SBLOCCA CANTIERI: QUANDO SI COMMISSARIA IL COMMISSARIO


Vi ricordate le leggi omnibus o le leggi finanziarie caratterizzate dagli “assalti alla diligenza” per soddisfare le clientele più disparate (cosa che peraltro succede anche con le attuali leggi di stabilità)? Ecco, il decreto Sblocca Cantieri recentemente approvato è qualcosa del genere, solo moltiplicato all’ennesima potenza. 

Frugando tra i suoi articoli troviamo tutto e il contrario di tutto: dal piano per le colonnine elettriche (costo: 10 milioni di euro) alle semplificazioni (?!) per le zone sismiche. Da norme relative al post-terremoto dell’Irpinia (avvenuto trentanove anni fa, nel 1980) a uno stanziamento di 300 milioni per le città di Campobasso, Catania e l’Aquila. Dai 4 milioni per le attività turistiche del Molise e della Sicilia alle norme per l’accelerazione della ricostruzione in Abruzzo, Lazio e Marche (tra cui l’esenzione delle imposte per negozi inagibili, ristori per le imprese terremotate e interventi per scuole situate in zone sismiche) ai 400 milioni destinati ai comuni sotto i 20mila abitanti per la messa in sicurezza di scuole e strade.

Per concludere, il cambio di nome delle “autostrade ciclabili” e del loro relativo fondo, a dimostrare come la fantasia italica non abbia eguali: questi percorsi infatti visto erano inesistenti come definizione normativa, dunque si cercherà di definire le modalità di erogazione delle risorse entro il 31 agosto 2019.

Insomma, siamo davanti ai soliti contributi a pioggia di ogni tipo: anziché riorganizzare il sistema degli appalti per dare una classifica di priorità della spesa e per non aprire mille fronti amministrativi inutili, costosi e che annullano la già bassa capacità (e qualità) di spesa delle stazioni appaltanti pubbliche, anche questo decreto procede in senso opposto.

Altro capitolo: le concessioni autostradali, anch’esse oggetto del decreto. A concessione appena autorizzata (senza gara) si autorizza l’Autobrennero a sostenere 3 costosi interventi: l’Interporto di Trento, quello di Isola della Scala (VR) e quello fluviale di Valdaro (MN), con le risorse necessarie che saranno recuperate con un aumento dei pedaggi autostradali. 
Si scambia poi per uno stop allo strapotere dei concessionari la norma che tutela il funzionario ministeriale che revoca la concessione autostradale inadempiente. La tutela dell’interesse pubblico viene così scaricata sui funzionari: meglio sarebbe stato definire a parte un progetto di riordino del sistema concessionari, che smontasse complessivamente le tutele che garantiscono la rendita di posizione dei concessionari da  vent’anni.

Ma chi esce davvero con le ossa rotte da questo decreto è l’ANAS, con la nomina dei commissari per il  Mose e il Gran Sasso, e il commissariamento della società in Sicilia - il più grande compartimento regionale per spesa e per addetti - con la nomina di un commissario straordinario per la messa in sicurezza e il potenziamento della rete viaria dell’isola.

E veniamo a quello che dovrebbe essere il punto centrale della norma, la velocizzazione dei lavori pubblici: lo Sblocca Cantieri è un vero e proprio attacco alla democrazia economica, che non snellirà un bel nulla, favorendo al contrario il “far west” negli appalti ai danni dei cittadini e dell’ambiente e a favore dei soliti noti, i vincitori d’appalto e i subappaltatori. Invece di adottare (poche) regole chiare, semplici e veloci come quelle di altri paesi europei che hanno recepito gli indirizzi comunitari, l’Italia decide di tornare indietro e di rendersi ancora più vulnerabile a fenomeni di corruzione, visto che ammazzando la competizione si impedirà l’arrivo sul mercato di nuove imprese.

Alzare a 150 mila euro la soglia minima per l’affidamento dei lavori tramite gara d’appalto significa aumentare la discrezionalità, togliendo ogni trasparenza nell’assegnazione dei lavori, con l’unico effetto che, per far finta di accelerare, continuerebbero a essere escluse imprese che vorrebbero svilupparsi ed entrare sul mercato dell’edilizia, ma sono prive di coperture politiche.

Consentire inoltre di modificare fino al 50 per cento i progetti significa non poter valutare correttamente l’offerta per il costo dell’opera: si approveranno progetti con ribassi significativi che poi ricresceranno senza alcun controllo della spesa. Il limite alle opere in sub-appalto, poi, viene aumentato dal 30 al 40 per cento: sarà così una sorpresa per l’ente appaltante sapere non già chi vince la gara, ma chi effettivamente realizzerà le opere (magari assegnate senza gara).

Per non parlare della sospensione del divieto di ricorrere all’affidamento congiunto di progettazione e di esecuzione dei lavori, e dell’obbligo di scegliere i commissari di gara tra esperti iscritti all’albo dell’ANAC, imputata di rallentare i lavori. Meno ipocrita sarebbe stato sciogliere un’Autorità che con queste norme diventerà solo un osservatore frustrato è una minaccia di stato per le stazioni appaltanti ed i commissari, chiamati ad utilizzare deroghe e norme speciali che potrebbero favorire reati dei quali potrebbero in futuro essere chiamati a rispondere.

Le norme approvate, poi, non abbassano gli eccessi di contenzioso, anzi: da un recentissimo studio dell’ANCE emerge che tra le cause del blocco delle 630 grandi opere ferme solo il 9 per cento è da attribuire al codice degli appalti. Le vere cause che impediscono alle opere di “viaggiare” stanno per il 43 per cento dei casi in vizi procedurali/amministrativi, per il 36 in cause finanziarie, e “solo” per il 19 per cento in mancate decisioni politiche. Basterebbero questi dati per capire che non serviva un’ennesima riforma del codice degli appalti, che si risolverà in una vera e propria liberalizzazione destinata a peggiorare ancor di più il sistema.

Non esiste in nessun altro dei paesi industrializzati l’istituzione di centinaia di commissari straordinari per quasi ogni opera da realizzare. Basta pensare che alcune grandi opere - una tra tutte, la Tav Torino-Lione - sono già commissariate e i lavori non procedono spediti lo stesso.
Trattandosi di centinaia di opere - molte sono le stesse che erano già inserite nella legge obiettivo del 1994 - il Governo si è dimenticato di dire che con centinaia di commissari e strutture amministrative annesse si potranno avere migliaia di occupati in più, oltre alla pletora di funzioni inutili che già pullulano nella pubblica amministrazione. Altro che i 2.800 navigator!

Ma la vera ciliegina - anzi, ciliegiona - di un provvedimento che allarga la spesa pubblica senza nessun orientamento strategico e senza calcolarne la redditività e i benefici per i cittadini, è l’istituzione di Italia Infrastrutture Spa, con un capitale di 10 milioni detenuto dal Ministero dell’Economia e controllato da quello delle Infrastrutture, il cui compito dovrebbe essere quello di gestire meglio i cantieri delle opere pubbliche in ritardo: ma non è forse questo il compito principale del Ministero retto da Danilo Toninelli?

giovedì 21 marzo 2019

ALTA VELOCITÀ: ONLIT, CONCORRENZA SOLO A METÀ, TRENITALIA PROTETTA E SUSSIDIATA DALLO STATO

Nonostante la rete ad alta velocità non sia satura, Rete ferroviaria italiana (Rfi) ha negato a Ntv, l’azienda proprietaria dei treni Italo, la possibilità di far circolare dieci nuovi convogli acquistati recentemente. Una decisione che ripropone ancora una volta il tema dell’accesso all’infrastruttura, visto che il gestore della rete – Rfi, appunto – e uno dei fornitori del servizio (Trenitalia) appartengono allo stesso gruppo.
Le procedure per richiedere nuove tracce orarie (slot) sono lunghe e farraginose, e mettono la società privata – acquistata lo scorso anno da un fondo statunitense –  nell'impossibilità di richiedere gli spazi necessari per operare su nuove tratte e potenziare quelle esistenti seguendo l’evoluzione della domanda. 
La situazione è ora sotto la lente dell'Autorità di regolazione dei trasporti (ART), a cui Ntv ha inviato una segnalazione. Già lo scorso anno Rfi si era vista recapitare una multa di 620 mila euro per non aver informato le compagnie concorrenti di Trenitalia dell’aggiornamento della normativa che consente l’accesso alla rete, e quindi di non aver garantito loro condizioni eque e non discriminatorie.
Il ripetersi di episodi di questo tenore dimostra le necessità di una separazione netta del gestore della rete da Trenitalia, mantenendo entrambe le aziende in mano pubblica, ma fuori dallo stesso gruppo societario. 
La concorrenza sulle tratte dell’alta velocità in questi anni ha dato risultati positivi sia per i viaggiatori, che beneficiano di tariffe più contenute rispetto al precedente regime di monopolio da parte di Trenitalia, che per l’ambiente, riducendo smog e congestione del traffico. L’Italia, però, rimane l’ultimo Paese europeo a non aver aperto alla concorrenza anche il settore del trasporto ferroviario locale, e in molti casi l’alta velocità è diventata per molti pendolari una – costosa – alternativa ai pessimi trasporti regionali. 
Trenitalia, inoltre, è riuscita in più occasioni a ottenere sussidi per i servizi delle Frecce, che invece dovrebbero essere a mercato. È il caso, ad esempio, di alcuni convogli finanziati dalla regione Friuli Venezia Giulia sulla tratta Trieste-Venezia-Milano (per un totale di 3,1 milioni euro nel 2015), o del contributo di un milione di euro erogato nel 2018 dall’amministrazione regionale lombarda per ridurre il costo degli abbonamenti dei pendolari sulla tratta Desenzano-Brescia-Milano: sussidi andati in tutti e due i casi soltanto agli utenti di Trenitalia, escludendo la compagnia concorrente.